Cilento, la peste del 1656: una vera ecatombe

Si manifestò, in uno che morì in tre giorni con petecchie e brutti lividori a guisa di uomo vergheggiato, ed in un altro, che con capogiro in ventiquattrore mancò. Così le cronache dell’epoca raccontano il nascere di una vera e propria catastrofe per le popolazioni colpite. Scorrendo la storia delle epidemie di peste in Europa, infatti, il Seicento rappresenta un secolo caratterizzato dagli ultimi gravi episodi pandemici scoppiati sul continente. Osservazione particolarmente valida nel caso del Regno di Napoli, colpito, tra il 1656 e il 1658, da una epidemia di peste devastante, che incise profondamente sulla demografia meridionale. Nel 1656, infatti, un’epidemia di peste attacca il Regno di Napoli. Proveniente, forse, da Algeri il morbo penetra in Spagna per giungere poi, nel 1652, in Sardegna, toccando infine le città e i territori di Napoli, Roma e Genova. All’interno del Regno, la prima località ad essere colpita fu la capitale, nei mesi tra marzo e maggio del 1656. Il morbo, che molto probabilmente giunse a Napoli portato dai passeggeri di una nave si diffuse rapidamente favorito dal grave ritardo con cui i governanti riconobbero il carattere ‘contagioso’ della malattia. Così, l’epidemia infuriò a Napoli fino all’agosto successivo. Solo l’8 dicembre del 1656 la capitale fu dichiarata ufficialmente libera dalla peste, pur proseguendo con quarantene, disposte forse più per prudenza che per reale necessità. Frattanto, però, l’epidemia si era già ampiamente propagata in tutto il Regno. A nulla servirono le disposizioni volte a limitare i movimenti di individui non autorizzati sul suolo meridionale. Il cordone sanitario, infatti, imposto intorno alla capitale al fine di vietare l’ingresso e l’uscita dal centro cittadino a chiunque fosse sprovvisto dei bollettini di sanità, venne continuamente violato, spesso con la complicità degli stessi ufficiali incaricati di controllarne l’osservanza. La fuga dalla capitale, non solo di nobili e religiosi, ma anche di gente comune, favorì una rapida e capillare diffusione della peste negli altri territori del Regno. Così, a causa di questi facili spostamenti e dello scarso controllo esercitato sul territorio da parte di amministratori centrali e locali, già nell’estate del 1656 il morbo aveva attaccato numerose province meridionali. Nei paesi del Cilento fu un’ecatombe, in particolare a Sacco, piccolo borgo dell’Alto Calore. Qui la peste giunse alla fine di giugno del 1656. Le misure di salvaguardia emanate dal regio decreto comprendevano la quarantena per i forestieri nel lazzaretto che sorgeva in contrada S. Giovanni e la bruciatura degli indumenti. La prassi prevedeva che se il forestiero non si ammalava entro 40 giorni lo si ammetteva in paese. Ma a Sacco queste norme non furono rispettate, come del resto in molti dei paesi del Cilento. Solo in un comune furono eseguite con meticolosità grazie allo zelo di un funzionario, Gian Cola del Mercato di Perdifumo. Qui infatti si ebbero solo 78 morti, pari al 9% della popolazione, mentre nella maggioranza dei borghi la mortalità fu del 60% e in alcuni addirittura del 100%. Ma ritorniamo a Sacco. Un censimento del 1648 compiuto per verificare il tasso di mortalità, stimò in quell’anno la presenza di 935 abitanti, ma alla fine della peste la conta fu di soli 290 abitanti. In pratica morirono più di 600 persone, pari al 60% della popolazione. La vecchia chiesa patronale, infatti, non riusciva più a contenere i morti per cui si decise di seppellire “fora la chiesa”. Tracce di quell’immane catastrofe permangono ancora oggi incise in quel crocefisso di via Sottosanti assieme al rinvenimento di resti umani in località Gelso (Cieuzo). Paradossalmente però la peste segnò anche l’inizio di una nuova fase del borgo cilentano, una fase di rinascita che ancor oggi viene ricordato con la festa patronale del 2 agosto. In quel giorno, infatti, del 1656 la popolazione sacchese gridò al miracolo. Ricorreva la festa della Madonna degli Angeli e la tradizione vuole che sulla mano della Vergine comparisse il bubbone maligno segno della fine dell’epidemia. Così scrive l’abate Pacichelli rettore del convento del Carmine di Piaggine a memoria dell’evento: “Picciol castello del Sacco, armato del titolo di contea, si è renduto venerabile pei prodigi dispensati dall’imagine di Nostra Signora nella fiera peste di Napoli, concorrendovi migliaia di fedeli da varie parti del Regno, i quali con l’olio della Sua lampada si liberano o preservaron da’ danni del morbo epidemico”. Ogni anno il 2 di agosto sacchesi di ogni parte del mondo tornano nella loro terra per rendere omaggio alla Vergine memori della grazia ricevuta.  Ma anche a Novi la peste fece sentire i suoi effetti. La prima vittima si ebbe il 6 agosto nella persona di Maria De Vita, una ragazza di 14 anni. Sarà la prima di 126 morti di cui l’ultimo fu Martino Manganelli deceduto il 5 dicembre. Le ragioni per cui a Novi la peste si manifestò dopo ben 47 giorni rispetto agli altri paesi cilentani é dovuta al fatto che nel ‘600 ed anche fino a pochi anni fa il borgo era tutto concentrato sul cocuzzolo del colle che fa da contrafforte al Gelbison e per di più chiuso in una cinta muraria, per cui vi si poteva entrare solo da quattro porte: Longobardi, San Giorgio, San Nicola (fino a tutto il secolo XVI detta “Porta San Cristofaro”) e Portella. Essendo, inoltre, sede della Baronia e residenza vescovile, la presenza delle autorità civili e religiose facilitò l’osservanza delle disposizioni sanitarie emanate per impedire quanto più possibile il propagarsi del contagio. Di tutto ciò, troviamo conferma confrontando sia il numero complessivo, sia quello particolareggiato delle vittime della peste.  A Vallo di Novi (attuale Vallo della Lucania) invece e nel contado limitrofo morì di peste oltre la metà della popolazione. Per concludere, volendo provare a fornire delle cifre complessive sulle vittime del contagio, le morti si sarebbero aggirate intorno ai 250.000 individui: in tutto 400.000, se consideriamo anche la capitale. Dall’analisi delle fonti finora consultate e della bibliografia esistente, è possibile ricostruire il ‘cammino’ della peste nel Regno di Napoli a metà Seicento. Il morbo, comunemente noto come ‘peste del 1656-57’, ebbe in realtà una durata più lunga, continuando a riaccendere focolai in centri vecchi e nuovi ancora nel corso dell’anno successivo e condizionando il definitivo ritorno alla normalità di tutto il Mezzogiorno. In conclusione, il Regno rimase sostanzialmente chiuso verso l’esterno per quasi due anni, riportando seri problemi per la sua vita non solo economica.

Pubblicato da Lucia Cariello

Archeologa e giornalista pubblicista. Dopo essersi laureata in Civiltà Preclassiche presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli e con diversi master al suo attivo, svolge attività di studio e valorizzazione storico, artistica ed archeologica del territorio Cilentano.

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