Cilento, il confine tra ‘il carnevale’ e ‘la quaresima’

Il ‘Martedì grasso’ chiude il periodo del carnevale e il giorno successivo, il ‘Mercoledì delle ceneri’, annuncia la quaresima. Mentre il carnevale riecheggia in uno spazio temporale variabile, secondo usi locali, la quaresima – seppur ‘mobile’ – è circoscritta ai suoi quaranta giorni.

Nel Cilento, convenzionalmente, il periodo dedicato al carnevale si apre il 17 gennaio, giorno in cui si ricorda Sant’Antonio Abate, spesso accostato, per antica tradizione alle maschere ed ai campanacci. Essendo, tra l’altro, protettore in ambito domestico, è un Santo molto amato: l’accensione dei falò, la benedizione dei campi, degli animali e dei pani, ne confermano l’assoluta popolarità. Si apre qui, dunque, un primo legame tra sacro e profano il quale – con molta probabilità – costituisce l’inizio di quel connubio indissolubile che ci condurrà fino alla Pasqua. La quaresima, invece, come anticipato, è confinata nei suoi quaranta giorni; la prima domenica di quaresima segue il ‘Mercoledì delle ceneri’, giorno che, a sua volta, segue l’ultimo giorno di carnevale: è il ‘Martedì grasso’.

Nell’espressività cilentana si traduce con alcuni semplici stornelli (in questo caso li ho rintracciati e trascritti ad Ostigliano):Carnuluvaro mio chino re ‘nnoglie, oj maccaruni e rimani foglie oppure we Vavo, Vavo mio, si prima ne mangiavamo carna e maccaruni mo so’ aspredde e sevuni. In entrambi i casi, il richiamo è volto alla contrapposizione tra il periodo di ‘magra’ (digiuno secondo i canoni cristiani) ed il periodo ‘dell’abbondanza’ scandito dalla spensieratezza del carnevale. Tuttavia si tratta di una ‘abbondanza’ ‘superficiale e povera’: basta interpretare il primo stornello che mette in gioco le noglie antagonista povero della classica salsiccia. Le foglie (se non altro dei sevuni) nel primo e nell’altro caso simboleggiano la misera componente alimentare che accompagnerà la quaresima: ancora una volta il riferimento è dettato da canoni simbolici riconducibili alla sfera religiosa.

Anche nella personificazione emerge la contrapposizione fra due realtà apparentemente distanti: da un lato Carnuruvalo (che diventa Vavo nella terminologia più arcaica, traendo origine dal latino avus col significato di ‘vecchio’ poi anche ‘nonno’), personaggio goffo che ha gioito di una ricca tavola imbandita; dall’altro Quarajesima, esile, rappresentata succinta da un abito nero e recante ‘fuso e conocchia’, strumenti che in coppia permettono di filare.

Nella notte che che unisce il Martedì grasso al Mercoledì delle ceneri, si compie un antico rituale: l’anno vecchio (Carnuruvalo) cede il posto al nuovo (la Qarajesima ne incarna le vesti). È così che la memoria popolare inganna le negatività e pone tutte le sue speranze nella benevolenza della buona sorte affidata alla nuova annata del raccolto.

Pubblicato da Giuseppe Conte

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